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    Antologia della critica    
    Siepi e giardini; presentazione al catalogo della personale alla XI Rassegna d'Arte Città di Buti, 1992

Disporre disinvoltamente delle forme suggerite dalla natura per consumarle in armonie nuove, attraverso una pittura che fra naturalismo e astratto ami giocare le sue riproposte suggestive, è caratteristica di alcuni maestri ai quali l'evoluzione dell'arte deve molto nello svolgersi di questo secolo. E non è stato raro il caso in cui le espressioni di costoro abbiano seguito itinerari altalenanti fra i due linguaggi, evitando di proposito di indagarli e perseguirli fino in fondo, in omaggio a quell'ambiguità di cui la pittura s'insapora quando penetra l'area misteriosa e intrigante dell'Arte. Penso a tali precedenti, che sono spesso di notevole levatura, osservando i dipinti di Paolo Lapi: non perché essi imitino quei percorsi o si inseriscano su quegli alti scranni, ma forse - e mi sembra questa la ragione vera - perché riescono a suscitare sensazioni analoghe assai vive nella diversità dei presupposti e degli svolgimenti che coinvolgono valori altri e tuttavia degni di rispetto. È probabile che, nel provocare queste sensazioni, l'uso dei colori abbia un ruolo preminente; anche se il modo con cui Lapi riesce a sbilanciare gli elementi prospettici e a manovrare la bidimensione - quasi a ingannare l'occhio, convincendolo cioè della concomitanza di molti piani che in effetti non esistono - è una scelta strutturale che assume enorme importanza nel linguaggio dell'artista pisano.
Ho nella memoria qualche "siepe" tratta da una serie realizzata nell'85: gli intrighi verdi ancora fortemente disegnati, e i gialli che ne punteggiano di presenze fiorite le piacevoli esplosione di vita, vi si stagliavano contro l'azzurro di cieli non dichiarati e tuttavia penetrabili per via di abili giochi di luci e di ombre e di sapienti intuizioni capaci di alterare persino i progetti esecutivi. Era evidente, in quelle cose, una invocazione che direi nostalgica del naturalismo nel quale Lapi aveva fatto avvertire i primi vagiti di pittore autentico, già intenzionalmente operando oltre la coercitiva tradizione postmacchiaiola di cui la vicina Livorno si faceva portabandiera. E magari era ancor privo di quella malizia che il mestiere acquisisce a mano a mano che si carica di esperienza. Ecco: trovo che Lapi ha conservato nel tempo la genuinità iniziale depositando, in quelle "siepi" coltivate oltre un lustro fa, le ultime nostalgie per le forme suggerite dalla natura. E il discorso suo, condotto e sviluppato sempre più nell'intimo della propria coscienza ma soprattutto della propria fantasia, ha cercato soluzioni più ambiziose. Oggi, infatti, la siepe resiste come entità formale ma non è più la stessa; è il gioco dei pieni e dei vuoti, che una volta vi esibiva motivi scenografici attinti all'arte plastica, è decisamente cambiato. Collages di umori, oggi, si concentrano in pennellate sostanziose che riempiono la superficie di verdi, di rossi, di gialli, di blu, attenti comunque a lasciare varchi appena leggibili e che esprimono desideri covati dentro all'anima e non chiaramente espressi: desideri intensi di oltrepassare la barriera di quella splendida illusione cromatica; per librare il pensiero negli spazi ampiamente annunciati ma non descritti, intuibili tuttavia seguendo le nervature dei segni (neri) che trafiggono la nuova "siepe". Come a cercare nell'intrigo la pista dei passaggi segreti. Oltre quella barriera Lapi - ne sono certo - va trasferendo il suo vasto immaginario verso il quale si dirigono i sogni nuovi e le legittime ambizioni che li affollano.

Tommaso Paloscia
   
   
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